2000 anni da Gesù, 20 anni da Romero
-lettera circolare fraterna-

 

 

Di fronte alla "fine" e al "cambio" di secolo, di millennio, di "paradigmi", siamo in molti, con toni e prospettive differenti, ad esprimere i nostri sogni pensando ad una nuova società, ed anche ad una Chiesa nuova. C'è una specie di sogno anonimo collettivo che si esprime, non si esprime, secondo necessità o interessi, ma che palpita impaziente nell'umanità di questo anno 2000.

A livello sociale, politico, economico, si chiede un cambiamento vero, e non di facciata, di marketing. A livello cristiano - che non tralascia di essere anche sociale, politico ed economico - si tratta del Giubileo, che dovrebbe essere il vero Giubileo, il Giubileo definitivo che proclamò Gesù di Nazareth: tempo di giustizia per i poveri, era di liberazione per l'umanità intera.

Noi "umani" di oggi abbiamo circa 35.000 anni di cammino; un tempo sufficiente per apprendere le grandi lezioni della storia. Purtroppo il potere neoliberista che regna oggi sull'umanità si manifesta, secondo Alain Greenspan dell'onnipotente Banca Mondiale, come una suicida «esuberanza irrazionale» della speculazione. Anche altri dirigenti di questa Banca e del Fondo Monetario Internazionale cominciano ad ammettere che «bisogna iniziare a tenere conto dei poveri...». Non si può prescindere impunemente dalla maggioranza dell'umanità!

Di fronte alla morte della speranza che di fatto ci predica il sistema, il Giubileo di Gesù, dal momento della sua proclamazione a Nazareth, si definisce la liberazione totale dei poveri.

Mentre si chiude il secolo più crudele della storia, ha lasciato la casa del Padre dom Hélder Câmara, il profeta della speranza. E in questo nostro Brasile dalla massima disparità sociale, il popolo si è messo in marcia "moltiplicando le marce" di rivendicazione. Nella nostra America, ha risuonato, confluendo e unificandosi, il Grido degli Esclusi. Nel mondo intero la solidarietà sta diventando non solo "il nuovo nome della pace", ma anche il nome inevitabile della sopravvivenza.

 

Il bilancio dell'ingiustizia

Le statistiche e i bilanci di sempre si moltiplicano nelle riviste e nella comunicazione elettronica. Purtroppo continuano ad essere quelli di sempre. Ma ora, con il peso specifico della fine di un'epoca, fanno memoria ed esigono previsioni.

Circa i 4/5 della popolazione mondiale assiste alla globalizzazione ma non vi partecipa. Un miliardo e 300 milioni di persone devono campare con meno di un dollaro al giorno. Stimando che si ha povertà "assoluta" con un'entrata annua inferiore a 370 dollari, l'Asia conta 778 milioni di poveri "assoluti", l'Africa 398 milioni e l'America 156 milioni.

Dei 4 miliardi e 400 milioni di abitanti dei Paesi "in via di sviluppo", circa i 3/5 non hanno l'acqua pulita, un quinto non ha cibo in quantità adeguata e un altro quinto non usufruisce di normali servizi di sanità. Si calcola che nel nuovo millennio mancherà l'acqua potabile al 40% dell'umanità, in questo nostro pianeta terra che è, a ragione, un "pianeta d'acqua". Gli Stati Uniti, invece, con appena il 5% della popolazione mondiale, utilizzano il 25% delle risorse della terra. Con ironia e con ragione, il sociologo statunitense Petras parla di «globalizzazione o impero nordamericano».

 

Il debito estero è diventato di attualità sia come notizia sia come sfida; debito che, secondo lo stesso papa, «minaccia gravemente il futuro delle nazioni» e che, secondo le Nazioni Unite, fa morire ogni giorno in Africa 19.000 bambini. Del resto l'Africa trasferisce all'Occidente più di 33 milioni di dollari al giorno.

 

Il movimento «Giubileo 2000» ha condotto una campagna nel mondo intero chiedendo che vengano annullati i debiti esteri dei Paesi poveri. Sono state raccolti 17 milioni di firme. Poco dopo è corsa per il mondo la bella notizia che i signori del potere mondiale avrebbero cancellato parte di questi debiti. La verità è che cancelleranno solamente 25 miliardi di dollari circa che equivalgono solo all'1% del debito totale dei Paesi del Terzo Mondo; perché l'importo totale del debito estero del Terzo mondo arriva alla spaventosa cifra di 2 mila miliardi e 30 mila milioni di dollari e solo 41 Paesi potranno ricevere questo "generoso perdono"...

Tra i bilanci desolanti di questa fine secolo e fine millennio bisogna soppesare amaramente la disoccupazione e il lavoro in semischiavitù, la violenza di ogni tipo (senza dimenticare, affermava Giovanni Paolo II, che «la povertà è la prima violenza»), e la cinica corsa agli armamenti.

La «Bozza dell'Agenda per la Pace e la Giustizia nel XXI secolo», che risponde all'«appello dell'Aia per la Pace», proclamava che «alla vigilia di un nuovo secolo, è il momento di creare condizioni per cui l'obiettivo primordiale delle Nazioni Unite, "salvare dalla guerra le generazioni future", possa essere realizzato». Pesano ancora sulla coscienza i 110 milioni di morti delle interminabili guerre del XX secolo. Ma vi sono ancora, solo in Africa, 18 Paesi implicati in guerre che colpiscono 180 milioni di persone. In 70 Paesi sono disseminati 119 milioni di mine e solo in Angola esse hanno già prodotto 100 mila mutilati. L'esercito messicano che aveva nel 1995 130 mila uomini, ora ne ha 40 mila in più, soprattutto per soffocare le più che giuste rivendicazioni dei popoli indigeni del Chiapas. L'amministrazione Clinton ha raggiunto il record di 21 mila 300 miliardi di dollari nell'esportazione di armi.

La massima parte delle vittime di queste guerre, oggi tanto moderne e persino virtuali, è, come lamentava Noam Chomsky parlando di Timor Est, «vittime che non valgono la pena».

«La sorella madre Terra», come direbbe Francesco d'Assisi, viene brutalmente violata. I suoi prodotti non sono più naturali, sono transgenici. E solo nel nostro Brasile, nell'arco di un anno, si disboscano 16 mila 838 chilometri quadrati. In Amazzonia si è abbattuta la foresta per una superficie media equivalente a 7 mila campi di calcio al giorno. La quarta parte della superficie della terra è sotto minaccia di desertificazione.

La direttrice del Programma mondiale di alimentazione dell'Onu riconosceva poco tempo fa l'incapacità della stessa Onu di risolvere il problema dell'«insicurezza alimentare» negli anni a venire, il che vuol dire che tra gli 800 e i 900 milioni di esseri umani - circa il 20% della popolazione mondiale - sono condannati a morire... di fame.

La sovrappopolazione delle grandi città è già molto più che una minaccia. Secondo il rapporto del PNUD (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) del 1998, nell'anno 2015 Città del Messico avrà più di 19 milioni di abitanti, San Paolo più di 20, Bombay più di 26, Shangai più di 17, Buenos Aires più di 13, Metro Manila più di 14 e Lagos più di 24. Nei prossimi 15 anni il 55% dell'umanità vivrà nelle città, mentre nel secolo XIX viveva in esse solo il 5% della popolazione mondiale.

Il MAI (Accordo Multilaterale sugli investimenti) non è morto, si sta mascherando. Così come non è ancora morta la Escuela de las Americas e si sta escogitando una Escuela de Africa, che non è di oggi: delle 53 nazioni africane, 43 hanno ricevuto dagli USA un addestramento militare e 26 di queste non erano nazioni democratiche.

Ieri, diciamo, nel loro «Manifesto comunista», Marx ed Engels profetizzavano lucidamente per il nostro oggi neoliberista che «il potere statale moderno non passa per un comitato esecutivo incaricato di gestire gli affari comuni della borghesia», del FMI, delle multinazionali. Perché è necessario ricordare sempre che mentre si paga il debito estero, obbedendo ai dettami neoliberisti, non si pagano i debiti interni dei nostri Paesi. E i governi smettono di essere al servizio dei propri popoli per sottomettersi ad un vero impero neoliberista senza patria.

Quando si propugna tanto insistentemente uno sviluppo sostenibile, dobbiamo intendere dialetticamente, per tutte le conseguenze della militanza, che l'attuale modello di sviluppo degli Stati Uniti e dell'Europa non è solo socialmente, economicamente ed ecologicamente insostenibile ma anche eticamente iniquo.

 

La memoria sovversiva

Rendiamo verità la nostra memoria, «e questa verità sarà che non c'è oblio» (Mario Benedetti): non della vita, morte e resurrezione di Gesù; non della storia ambigua della sua Chiesa; non del clamore secolare, crescente, inascoltato dei poveri della terra; non dei molti, uomini e donne, testimoni di sangue che ci chiamano alla fede.

Sono trascorsi 2000 anni da Gesù e 20 da Romero. Due date che potrebbero apparire sproporzionate in una stessa epigrafe, perché Gesù è Gesù, ma che tuttavia sono intimamente collegate. In America Latina, per lo meno, un buon modo, e molto nostro, di celebrare il Giubileo dell'Incarnazione e della Redenzione, è celebrarlo "alla Romero".

Sto scrivendo in una data molto vicina alla celebrazione del Giubileo. Sono già iniziate da mesi le grandi celebrazioni e altre ancora più grandi si vanno preparando. Non sono mancate però altre voci che hanno opportunamente destato attenzione.

«Nel 2000 l'opzione per gli oppressi come soggetti - scrive Giulio Girardi - ci impone una presa di posizione contro l'interpretazione trionfalistica del Giubileo che lo concepisce come un'esaltazione del cristianesimo storico. Questa opzione esige una reinterpretazione del Giubileo come critica severa non solo alla civiltà occidentale, ma (anche) al modello di cristianesimo che ha sacrificato l'opzione per i poveri all'opzione per gli imperi; critica ispirata alle imprecazioni contro la religione del tempio, lanciata dai profeti e soprattutto dallo stesso Gesù nell'instaurazione dell'epoca giubilare».

Naturalmente le celebrazioni, le romerie, il "giubilo" per la venuta di Dio nella carne e nella storia appartengono alla nostra terra umana. Però dovrebbero realizzarsi sempre secondo l'umiltà e la kénosis di questa venuta: dando al Giubileo tutta la sostanza biblica che ci viene già dai profeti e che Gesù ha riabilitato definitivamente perché fosse un Giubileo totale ed universale, perché rispondesse - questa è la grande finalità - al cuore di Dio suo Padre, nostro Padre.

Teoricamente tutti capiamo che il Giubileo innanzitutto deve essere tornare a Gesù di Nazareth, al Gesù del Vangelo, alla sua Causa: il Regno.

Per il mio esame di coscienza e in condivisione con tanti fratelli e tante sorelle con cui camminiamo insieme o dovremmo camminare insieme, io sottolineerei concretamente:

• La riscoperta del Dio di Gesù, che è il Dio-Amore, Padre-Madre di tutta la famiglia umana, una e plurale. Un Dio capace di «far uscire dalle tombe figlie e figli suoi». Dio di tutti i nomi, adorato in tutte le religioni, presente a priori e sempre in tutti i cuori umani.

• Come conseguenza di questa fede in questo Dio, un'autentica fratellanza-sorellanza universale, «nella quale si riconoscerà che siamo i discepoli di Gesù».

• Più in là della legge, a volte contro la legge (e parlo delle leggi civili e anche delle leggi religiose), l'amore-giustizia, l'amore-solidarietà, l'amore-misericordia. Un amore parziale, perché parte sempre dai poveri, dagli esclusi. Jon Sobrino sta per lanciare un volume di cristologia intitolato significativamente: «La fede in Gesù Cristo. Saggio da parte delle vittime».

• La speranza vittoriosa, che si fonda sulla croce del Risorto e che si traduce quotidianamente, a livello personale e a livello sociale, in una fedeltà sempre coerente, in una militanza che non zoppica, in una testimonianza senza arroganza ma senza paura, che va fino in fondo, come è stato per tanti fratelli e tante sorelle martiri. Speranza, è bene ripeterlo, vissuta e celebrata "contro ogni speranza", nonostante tutti i passi falsi e le cadute, «nonostante tutte le afflizioni neoliberiste ed ecclesiastiche».

 

Celebrare i 20 anni del vescovo Oscar Arnulfo Romero, martire in piena eucarestia il 24 marzo del 1980 nel Salvador, vuol dire assumere l'eredità di Romero, le cause per le quali egli diede la vita, la sua conversione ai poveri, quel Giubileo di tre anni definitivi che egli sigillò col suo sangue. I suoi atteggiamenti di ascolto, di accoglienza, di profezia, di speranza, il suo modo di essere pastore così fedele alla realtà del luogo e così politicamente coerente. Il popolo amato, cercato, adottato pastoralmente, nelle sue angosce e nelle sue rivendicazioni, lo ha fatto santo. E santo lo va dichiarando dalla sua morte-martirio e come santo lo venera soprattutto nella cattedrale-catacomba di San Salvador. Il vero processo di canonizzazione del buon pastore Romero deve essere il processo dell'assimilazione delle sue cause e dei suoi atteggiamenti.

In questa fine secolo è interessante raccogliere l'affermazione di Ludwig Kaufmann, nel suo libro «Tre pionieri del futuro. Cristianesimo di domani»:

«Tre pionieri della fede che osservano da vicino la realtà del loro rispettivo presente (...), che indicano un cammino perché noi possiamo essere cristiani domani: Giovanni XXIII, che confidava nel fatto che Dio continua ad agire nella storia, che seppe leggere i segni dei tempi ed ebbe il coraggio di mettere la Chiesa in cammino nel servizio all'umanità; Charles de Foucauld, ispiratore della comunità dei piccoli fratelli (e piccole sorelle), che ha cercato in più riprese di lasciarsi alle spalle le frontiere e i privilegi dei cristiani europei; Oscar Romero, che optò in maniera radicale per i poveri e giunse ad essere martire della Chiesa degli oppressi».

 

L'opzione profetica

Alla luce di queste due date, tanto nostre, e delle esigenze e speranze ad esse legate, io stesso - insieme, credo, a milioni di fratelli e sorelle di questo sogno anonimo collettivo - vorrei vedere personalmente le seguenti trasformazioni (radicali) nella Società, nelle Religioni, nella Chiesa:

1) Riguardo alla Società: contestare efficacemente questa mondializzazione globale di accumulazione di lucro, di stupido consumismo e di esclusione omicida, per costruire l'altra mondializzazione, a partire da un atteggiamento di mondialità quotidiana. Contro «la speculazione, gli investimenti selvaggi, i privilegi della circolazione delle merci sulla circolazione del lavoro, l'informazione orientata, il darwinismo globale», rendere possibile «la trasparenza e l'abbondanza dell'informazione, la circolazione e l'applicazione delle tecnologie, gli investimenti produttivi, l'universalizzazione dei diritti umani», e «radicare questi diritti nelle politiche locali di educazione, sanità, comunicazioni, occupazione» (Carlos Fuentes).

Come qualcuno ha opportunamente suggerito, coniugare costantemente e a livello mondiale i verbi "condividere, partecipare, prevenire".

Un obiettivo ineludibile sarebbe, evidentemente, sostituire l'Onu attuale e le sue istituzioni con altre che siano veramente mondiali, eque, senza privilegi e senza cinismo. Favorevoli ad una mondialità «in cui rientrano tutti» e tutti i popoli, anche i popoli indigeni, anche le minoranze.

È da tempo ormai che si diffonde la campagna per la riforma della Banca Mondiale e si propone la creazione del Tribunale Penale Internazionale. Nella nostra Agenda Latinoamericana, che a partire dall'anno 2001 sarà «Latinoamericana-mondiale», presentiamo un elenco e alcune realizzazioni concrete di questa mondialità "altra". Ci sono molte proposte e saggi che aprono questo cammino: dalla rivendicazione insistente di Amnesty International per l'abolizione della pena di morte nel mondo intero (in un solo anno sono state effettuate 1.625 esecuzioni) fino alla creazione della banca dei poveri.

I Paesi, è evidente, dovrebbero considerare il proprio Stato sovrano e servitore. Le "comunità economiche" non esisterebbero per imporsi ma per completarsi l'una con l'altra. E la Nato e le sue propaggini sarebbero superflue

Ascoltando profeticamente la situazione dei nostri popoli dell'America Latina (di tutto il Terzo Mondo) e anticipando profeticamente la situazione oggi ancora più drammatica fino ad ora che ha creato il capitalismo neoliberista, Medellín denunciava: «Vogliamo sottolineare che i principali colpevoli della dipendenza economica dei nostri popoli sono quelle forze che, ispirate dal profitto senza freni, conducono alla dittatura economica e all'imperialismo del denaro» (2,9).

Come proposta alternativa dovremmo coltivare, a tutti i livelli, una cittadinanza spiritualmente internazionalista, la solidarietà fra le rispettive identità e la internazionalizzazione effettiva della solidarietà.

 

2) Le Religioni dovranno mettersi d'accordo nel nome del Dio della Vita, dell'Universo e della Pace, per il servizio comune delle Grandi Cause dell'umanità, se vogliono essere religioni umane, espressioni plurali, le più profonde, dell'anima della stessa umanità, cause vitali che sono l'alimentazione, la pace, la salute, l'educazione, la casa, tutti i diritti umani, i diritti dei popoli e le esigenze dell'ecologia.

È stata già scritta la «Carta delle religioni unite» e si è celebrato, lo scorso mese di dicembre, in Sudafrica, l' «Assemblea Mondiale delle Religioni».

Ogni fondamentalismo, ogni proselitismo, ogni prepotenza nel modo di vivere la propria religione, la nega, perché nega Dio vivo a cui tutte le religioni vogliono rendere culto.

Il macroecumenismo, adulto, dialogante, fraterno, diventerà un fondamentale atteggiamento di qualsiasi religione degna di questo nome, a partire dalla propria identità, nell'apertura alla pluralità dell'adorazione e della speranza e seguendo il saggio consiglio del sufi iranì del secolo XIII: «Come un compasso, abbiamo un piede fisso nell'Islam e con l'altro viaggiamo nelle altre religioni».

 

3) La Chiesa, per essere la Chiesa di Gesù, deve mettersi, esclusivamente, al servizio del Regno e uscire da un autoservizio ossessivo. Perciò le Chiese, soprattutto quella cattolica, devono aprirsi all'ecumenismo reale... senza aspettare la fine del mondo! E inculturarsi veramente, seguendo il vangelo, nei differenti popoli e nelle differenti coordinate storiche.

La rivista «Focnou», della Catalogna, ha raccolto una serie di proposte che rispondevano alla domanda, tanto attuale, «Come dovrebbero essere i cristiani del secolo XXI?». Colgo qui alcune delle risposte che molti di noi cristiani e cristiane senza dubbio facciamo anche nostre:

«con senso comune», «privati di tutto il superfluo che ci ha invaso», «convinti che Dio vuole salvare tutti», «interpellati dall'umanità di oggi», «i credenti della postcristianità», «facendo causa vitale delle grandi cause dell'umanità», «con una vitale esperienza del Dio dei poveri», «senza porre limiti all'amore di Dio», «più fedeli al Vangelo che sottomessi al Vaticano», «con una spiritualità lontana da qualsiasi integralismo», «persone che mantengono viva la speranza», «aspettando un Vaticano III», «profondamente ed intimamente afferrati da Gesù», «con maturità umana e di fede», «scintille di fuoco benedetto nella notte di Pasqua»...

Passando adesso più concretamente alla nostra Chiesa cattolica, questa dovrà rivedere seriamente la corresponsabilità e ministerialità a partire da una profonda revisione dell'esercizio del papato e del potere della sua curia. Non lo dico solo io, povero me; lo diciamo in milioni e lo hanno dichiarato voci apertamente autorizzate. Il card. Ratzinger, al tempo del suo famoso libro «Il nuovo popolo di Dio», scriveva: «La Chiesa ha bisogno di uomini appassionati della verità e delle denuncia profetica. I cristiani devono essere critici persino verso lo stesso papa, certo panegirismo reca gran danno alla Chiesa e a lui».

Il card. Etchegaray, nella lezione inaugurale dell'incontro «Chiese sorelle, popoli fratelli», realizzato il passato novembre a Genova, parlava del gran paradosso degli ultimi papi «consapevoli di essere (come ministero di Pietro) il principio dell'unità dei cristiani e che (in realtà) si vedono come il suo drammatico ostacolo». Il ministero di Pietro - aggiungeva il cardinale - che serve strutturalmente per promuovere la sinodalità della Chiesa, è anche di natura sinodale: la sua funzione propria non lo situa al di fuori e o al di sopra del collegio episcopale. Il papa non è un grado superiore all'episcopato e ha le sue radici nello stesso sacramento che crea i vescovi».

A sua volta, il card. Martini, presiedendo un gran pellegrinaggio in Terra Santa, riconosceva che la Chiesa cattolica deve fare passi fondamentali verso l'ecumenismo «fra cui, il modo di esercitare il primato di Roma, che deve essere ripensato». «Di fatto - ricordava Martini, e la notizia ha avuto risonanza mondiale - lo steso papa si è detto disposto a ripensare e ad ascoltare suggerimenti sulla forma di esercizio del primato».

La Chiesa sta chiedendo perdono per molti dei suoi peccati commessi in questi due millenni, però continuiamo anche oggi ad essere peccatori. I Sinodi continentali da poco celebrati non sono stati precisamente sinodali; non hanno risposto alle necessità e ai contributi delle Chiese di ogni continente. I vescovi giapponesi, per citare un esempio, insistevano che «si considerasse sotto una nuova luce la relazione tra le Chiese d'Asia e la Santa Sede», e specificatamente chiedevano «un sistema di relazioni basato sulla collegialità e non sul centralismo».

La riforma del papato e della curia renderebbe possibili - con l'"automatismo" dello Spirito e per le aspettative della Chiesa universale - molte altre riforme riguardo alla corresponsabilità, alla collegialità, all'inculturazione, al pluralismo legittimo, ai ministeri.

Nell'ecumenismo ci sono alcune buone notizie, però è così tanto il cammino che resta da fare che appaiono molto lente e timide. Il documento di Augusta, per esempio, tra la Chiesa cattolica e la Chiesa luterana, viene dopo cinque secoli di incomprensioni, per finire col dire che entrambe le parti si completano nella ineffabile "Giustificazione"...

Urge sentirci tutti fratelli e sorelle "separati"; anche noi cattolici. Urge intendere l'ecumenismo come un andare e venire incontro all'unico vangelo di Gesù di Nazareth. E urge riconoscere le rispettive tradizioni, così come riconoscere la legittima autonomia delle Chiese locali, e scoprire in queste tradizioni e in questa autonomia l'azione dello Spirito «che soffia dove vuole» e che ci «va manifestando la verità completa». Urge animare i teologi e le teologhe invece di spaventarli nel loro servizio di sistematizzazione della fede e apertura degli orizzonti. Purtroppo «durante l'ultimo papato, circa 500 di loro sono stati messi a tacere dal Vaticano in un modo o nell'altro».

Di fronte al malessere generalizzato, di fronte all'involuzione programmata e all'ossessione di decretare, definire e sbarrare il passo, chiedere un nuovo Concilio ecumenico - entro i prossimi dieci anni, suggerisce il card. Martini - non è affatto una frivolezza ecclesiale.

Che per questo nuovo millennio non si possa ripetere la amara definizione che dava Rahner dell'esistenza della Chiesa fuori d'Europa, come «il frutto dell'attività di una multinazionale che ha esportato la religione come un bene che non poteva essere alterato e che è stato portato in ogni luogo attraverso una cultura e una civiltà considerate superiori».

Non è amaro disfattismo né ipercritica irresponsabile. È amore per la Chiesa e soprattutto per il Regno. È la speranza che si impegna. Il card. Franz König, nella difesa che faceva lo scorso anno di p. Jacques Dupuis, teologo del dialogo interreligioso, si sfogava così, con emozione molto ecclesiale: «Non posso rimanere in silenzio perché il mio cuore sanguina quando vedo errori tanto evidenti contro il bene comune della Chiesa di Dio».

 

Programmi fraterni

Fra le numerose celebrazioni - più o meno certe - e rispettando tutti i gusti sempre che siano evangelici, sempre che rispettino lo spirito del Giubileo, desidero dare risalto qui, e contemporaneamente invitarvi, ad alcuni prossimi appuntamenti che ci coinvolgono intimamente.

• A San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, Messico, dal 20 al 26 gennaio si celebrerà un saluto-omaggio al Tatic provvidenziale, don Samuel Ruiz, con una settimana di teologia, fra le altre manifestazioni.

• A San Salvador, dal 19 al 26 marzo, si celebreranno i 20 anni del martirio del nostro "san Romero d'America". Fra le altre attività e celebrazioni, congresso del SICSAL (Segretariato Internazionale Cristiano di Solidarietà con e a partire dall'America Latina).

• Nel Brasile dei 500 anni, mal contati, mal vissuti politicamente ed economicamente, dall'11 al 15 luglio, ad Ilhéus, Bahia, avrà luogo il X Incontro Interecclesiale delle CEBs, per i «2000 anni di cammino» e come «Memoria, sogno e impegno».

• A Belo Horizonte, dal 24 al 28 luglio, si celebrerà l'Incontro Latinoamericano di Teologia 2000, organizzato dalle Società teologiche del Brasile (SOTER), dell' Argentina (SAT) e dell'Uruguay (SUT), ma con portata continentale.

• Nella Repubblica Dominicana, dal 1 al 7 novembre, e con un pellegrinaggio ad Haiti, celebreremo la terza Assemblea del Popolo di Dio (APD), una nuova piccola pentecoste macroecumenica.

• E qui alla Prelatura di San Félix di Araguaia, a Ribeirão Cascalheira, i giorni 17 e 18 luglio dell'anno 2001 (duemila e uno, si noti), celebreremo con impegno la Romería dei Martiri del cammino latinoamericano, in occasione dei 25 anni del martirio di nostro padre João Bosco Penido Burnier.

 

«Noi siamo il tempo», rifletteva sant'Agostino. Siamo dunque il Giubileo, con tutta la nostra vita!

Un solenne ciclo di conferenze, celebrato in quest'ultimo anno del secolo, si intitolava, ansiosamente, «Alla ricerca del paradigma perduto». Noi, fratelli, sorelle, non abbiamo perduto il paradigma, non è vero?

 

Pedro Casaldáliga
Anno 2000
São Félix do Araguaia, MT, Brasil
araguaia@ax.apc.org